Il gruppo, tra appartenenza ed esclusione

È molto doloroso osservare chi viene escluso. È un’esperienza accaduta a tutti almeno una volta nella vita. Vi abbiamo assistito o ne siamo stati noi direttamente coinvolti.

L’esperienza dell’esclusionevissuta direttamente o da spettatori, ci può lasciare disarmati e pieni di interrogativi, incapaci di reagire, o può scatenare in noi reazioni molto intense di fronte alla percezione dell’ingiustizia

D’altra parte in certe situazioni può addirittura essere necessario allontanare qualcuno da un gruppo per il quieto vivere degli altri. Anche questa esperienza lascia dell’amaro in bocca, nonostante il sollievo provato nel riuscire a tornare ad una calma che avevamo perso. Rimane una ferita nascosta sia in chi ha voluto l’allontanamento, sia in chi è stato allontanato e in tutti coloro che in qualche modo erano partecipi.

In modo diametralmente opposto, sembra esserci una forza istintiva che ci spinge a fare di tutto per sentirci inclusi. Ci adoperiamo per fare parte di un gruppo, per sentirci integrati in un nuovo ambiente di lavoro, per venire accettati dalla famiglia o dalla società in cui viviamo. Mettiamo in questo tanta energia e viviamo con gratificazione quel senso di accettazione e appartenenza che sperimentiamo quando siamo davvero accolti.

La radice del dilemma inclusione/esclusione parte dai tempi più antichi. La spinta, la forza vitale che nutre questa radice si chiama appartenenza.
Il senso, il bisogno di appartenenza, anticamente era una necessità legata alla sopravvivenza. Appartenere al proprio clan, alla propria tribù era una garanzia di sicurezza dai pericoli esterni, nel gruppo veniva trovato riparo e difesa dalle minacce, ma si sviluppava anche un’identità. In quel tipo di società ognuno aveva il suo ruolo e riceveva una protezione ma di contro le regole dovevano essere accettate, pena l’allontanamento e quindi il rischio di morire.
Tale movimento interiore arcaico e archetipico vive ancora oggi dentro di noi, è una delle cose più naturali che ci sono e lo possiamo osservare nella vita di tutti giorni: appartenere, sentirsi parte e accettati ci dà sicurezza, ci gratifica, ci aiuta nella formazione del nostro senso di identità – anche sociale e collettivo – e rappresenta una culla sicura all’interno della quale crescere e svilupparsi. Quando apparteniamo ci possiamo rilassare e dare il meglio di noi. Si potrebbe affermare che “appartenere è tanto importante quanto respirare” (Judit Hamming).

Se ci spostiamo nel campo dell’educazione – nelle scuole, asili, gruppi di bambini e ragazzi – l’attenzione alla tematica dell’inclusione e dell’esclusione diventa quasi vitale. Tra i primi obiettivi degli educatori ci sono quelli di favorire l’inclusione, di creare un gruppo saldo e coeso, di promuovere un’accettazione condivisa che vada oltre le differenze, per quanto sia complesso in una società multiculturale ottenere una completa accoglienza. A volte sembrano proprio mancare gli strumenti per mettere in pratica quello che auspichiamo: accogliere ciascuno indipendentemente dal bagaglio che si porta con sé.

Un primo aspetto da considerare è il fatto che ogni persona che entra a far parte di un nuovo gruppo porta con sé una storia. La storia di una famiglia, di un contesto. A livello inconscio, esiste una forma di fedeltà al gruppo di appartenenza, che è garante della sopravvivenza. Un senso di appartenenza non solo alla famiglia ma anche alla cultura da cui proviene. Per cui la persona arriva nel gruppo con tutto il suo bagaglio esperienziale, culturale, di consuetudini, di mentalità e struttura mentale che ha ereditato.

Ogni volta che ci apriamo ad altre realtà ed entriamo a far parte di un gruppo, come per esempio nel passaggio alla scuola, avviene un movimento che ci allontana dal gruppo originario per accedere ad uno nuovo, con le sue regole non scritte, con le sue qualità e caratteristiche, diverse da quelle precedenti.
Il bisogno innato di sentirsi parte e di voler essere accettati mette in atto energie di adattamento, che portano a comportarsi e a relazionarsi in un certo modo che ci garantisce l’essere accettati. Anche comportamenti disturbanti, in modo paradosso, esprimono il bisogno vitale di appartenenza, proprio attraverso la non-appartenenza.

Affrontare un passaggio di questo tipo, soprattutto per un bambino, richiede molta fatica.

È possibile aiutarlo in un passaggio tanto delicato? È possibile sostenere bambini, ragazzi e adulti, in questo processo del sentirsi parte senza dover negare o nascondere parti importanti di sé e della propria storia? Cosa possiamo fare per permettergli di rilassarsi e vivere in un modo più completo ed integro dentro un nuovo gruppo?

Poiché stare in gruppo non implica necessariamente sentirsi parte di esso, e in considerazione anche del fatto che spesso i gruppi si autodefiniscono in base a chi ne sta fuori, è escluso, è indispensabile, ogni volta che lavoriamo con un gruppo di ragazzi fare molta attenzione alle dinamiche che si instaurano.

Per tutto questo – dopo alcune difficoltà nelle relazioni tra i ragazzi e nella gestione del gruppo da parte degli educatori emerse lo scorso anno – con il gruppo dei volontari del doposcuola abbiamo deciso di lavorare in maniera più organica per favorire il senso di appartenenza e per stimolare la creazione del gruppo.

La psicologia sistemica ha sviluppato alcuni semplici strumenti che favoriscono lo
sviluppo e il rafforzamento della coesione all’interno di un gruppo, attraverso l’aumento della consapevolezza.
Lo scopo di questi strumenti e attività, è principalmente quello di permettere a tutti i componenti di riconoscere ciò che è, portandolo alla luce attraverso l’esperienza: portare a galla ciò che solitamente non viene detto, non viene ascoltato, ciò che c’è ma non si vede. Di seguito a volte, c’è una condivisione dell’esperienza vissuta. La parola inglese che viene utilizzata per definire tale processo, è acknowledge, i cui significati sono diversi e tutti bellissimi : ammettere, riconoscere, accettare, mostrare, mostrare apprezzamento per, confessare, validare, dichiarare.

Pur rimanendo il centro della nostra attività quella di sostenere i ragazzi e le ragazze con i compiti pomeridiani, abbiamo riflettuto e cercato di individuare qualche strumento pratico ed efficace che potesse aiutare tutti noi a diventare più consapevoli e ad agire nella direzione dell’accoglienza e della creazione di un gruppo. Di seguito vi sono alcuni piccoli esempi e idee che abbiamo utilizzato per poter permettere ai bambini di fare l’esperienza del gruppo, di sentirsi parte e accolti per ciò che ciascuno di loro porta, in un modo divertente e semplice. Si tratta di strumenti concreti con le riflessioni che ci hanno portato, che descriviamo pensando possano essere utili anche ad altri, pur senza la pretesa di fornire una soluzione od una prospettiva unica.

IL CERCHIO rappresenta una delle modalità di aggregazione spontanea dell’essere umano che si osservano in tutto il mondo, indipendentemente da cultura, razza, nazionalità. Si tratta di una forma in cui l’uomo si aggrega, a qualsiasi età, in modo completamente istintivo.
È un’esperienza comune che quando siamo in gruppo, magari aspettando fuori dalla pizzeria gli ultimi amici, ci disponiamo spontaneamente in cerchio per scambiare delle chiacchiere.

Mettersi in cerchio mette tutti sullo stesso piano, indipendentemente dall’età, dall’esperienza, dal luogo da cui veniamo e da quello che sappiamo. Ci possiamo guardare tutti negli occhi. Nessuno escluso. Il cerchio, come esperienza umana, accoglie ed accetta. Le informazioni e l’energia fluiscono all’interno del cerchio, da uno all’altro. L’ultimo è accanto al primo. Il confine tra l’inizio e la fine si dissolve.

In modo piuttosto naturale abbiamo perciò deciso di iniziare e terminare i nostri incontri seduti in cerchio, uno spazio democratico nel quale salutarci, dirci come si sta, entrare in contatto. Può sembrare uno strumento banale, ma talvolta le soluzioni semplici sono molto funzionali.

IL RITMO Una delle caratteristiche innate dell’essere umane è il ritmo. Fin da piccolissimi siamo immersi in una miriade di esperienze del ritmo: il ritmo della luce e della buio, dell’alternarsi del giorno e della notte, il movimento ciclico delle stagioni, i nostri ritmi interiori (il cuore, la fame, il sonno).
Inserire questo senso del ritmo anche nel gruppo può aiutare a creare quella connessione che cerchiamo.
Abbiamo perciò provato a creare piccoli e semplici rituali di apertura e/o di chiusura dell’incontro e deciso di dedicare i primi 10-15 minuti ad un raccoglimento in cerchio prima di iniziare le attività. È un momento per condividere qualcosa che è stato importante per noi in quella giornata, o nei giorni precedenti: come è andata la giornata a scuola per esempio, cosa ci aspettiamo per quel giorno, cosa è accaduto durante l’ultimo incontro che ci ha entusiasmato o che non ci è piaciuto affatto. C’è una regola: si parla uno alla volta e gli altri ascoltano in silenzio. Senza commentare. Senza criticare. Semplicemente si ascolta. Non è facile, perché non siamo ormai più abituati a parlare uno alla volta e abbiamo perso la capacità di ascoltare. Ma piano piano le cose stanno cambiando. Impariamo come ascoltarci e anche come non prendere troppo spazio quando è il nostro turno per parlare. Tutti partecipano: adulti e piccini.
È stato bellissimo, in uno degli ultimi incontri, raccogliere le parole di una bimba che riportava un evento che l’aveva profondamente ferita. Non aveva ancora avuto modo di condividere con nessuno l’accaduto, che magari avrebbe potuto perdersi o nascondersi in qualche antro segreto della sua anima. Invece ha avuto questa possibilità, all’interno di un gruppetto di grandi e piccoli che semplicemente hanno accolto la sua esperienza.

UN GIOCO PER SENTIRCI UNO Un gioco che troviamo davvero divertente, semplice ed efficace per favorire la connessione tra tutti i membri di un gruppo e creare un senso di continuità ed accoglienza, apprezzando le diversità, è quello del puzzle.

Lo abbiamo proposto ai bambini il primo giorno del doposcuola, e lo ripetiamo ogni volta che arriva un bambino nuovo: da un cartoncino abbiamo ricavato diversi pezzi a forma di puzzle. In cerchio ci siamo presentati e ne abbiamo distribuito a ciascuno un pezzo con la richiesta di decorarlo con un disegno che rappresentasse il proprio nome

Poi, partendo da chi si sentiva di volerlo fare, abbiamo uno alla volta unito i pezzi del
puzzle, incastrandoli con quelli degli altri, nel punto che ognuno voleva, dove sentiva che stesse bene. Ne abbiamo scattato una foto per conservare la memoria del primo giorno e ad ogni nuovo bambino che si aggiunge al gruppo del doposcuola, tutti insieme riproponiamo la decorazione del puzzle in questo modo: chi è nuovo decora il suo pezzo; chi ha già il suo, lo può arricchire o colorare, e può aggiungere tutti gli elementi che vuole. Poi i pezzi vengono nuovamente riuniti in un puzzle più grande, sempre uno alla volta e con la richiesta per ciascuno di trovare dove è il suo posto.

UNA RETE PER CONNETTERSI Un’altra attività che abbiamo sperimentato poiché favorisce e rende consapevole la connessione che c’è tra i vari membri di un gruppo, è il gioco della rete.

Ci si dispone in cerchio. Uno dei partecipanti ha con sé un gomitolo di spago o di lana. Il gomitolo viene lanciato ad uno dei partecipanti. Si dice il nome della persona a cui si lancia il gomitolo e si esprime in una frase perché si è scelto quella persona, descrivendo un aspetto che di lei ci piace. L’estremità del gomitolo viene tenuta da chi lancia e si forma così una rete che connette tutti quelli che fanno parte di quel gruppo. La rete così formatasi è come viva. Se qualcuno cambia posto o perde il filo, la rete può diventare molle o troppo tesa oppure può disfarsi. Abbiamo sperimentato che tutti i bambini del gruppo venivano coinvolti e apprezzavano di essere parte del gruppo.

Di ogni esperienza che facciamo teniamo ciò che ci piace, che sentiamo utile e che ci da nutrimento, e scartiamo e lasciamo andare ciò che non ci serve, che non ci piace e che ci appesantisce.

Anche se siamo ancora all’inizio dell’anno scolastico e sicuramente è presto per esprimere una valutazione complessiva, senz’altro le piccole strategie che stiamo usando stanno portando già alcuni risultati tangibili.

I ragazzi stanno meglio al doposcuola, c’è meno confusione, questo piccolo rituale ha il merito di creare un attimo di concentrazione che continua nel lavoro. Il clima che si instaura è collaborativo e anche il lavoro di svolgimento dei compiti risulta più raccolto e sereno. Il momento del doposcuola sempre più sta diventando anche un punto in cui incontrarsi e stare insieme, parlare e condividere. Anche noi educatori abbiamo una maggiore serenità e ci sentiamo più efficaci e viviamo meno momenti di impotenza o frustrazione.

 

photo : Cristian; Lostintherwoods, C. Santoni, C. Bargagli