Diario di un’ostetrica in un campo rom

“Il cielo era scuro e mi arrivò sin da subito un odore forte che mi fece pizzicare il naso… C’erano baracche, con pareti di ogni materiale, l’una vicina all’altra, ed un fossato, pieno di vecchie e nuove cianfrusaglie, a dividere il campo dalla strada: vidi passeggini, bottiglie e giocattoli. Era piovuto da poche ore, c’era melma ovunque, insieme a piccoli cumuli di spazzatura. Erano le dieci del mattino, in giro non c’era nessuno all’infuori di un vecchio che ci guardava e cantava una canzone in una lingua che non capivo, probabilmente romanì. Ci seguiva senza mai avvicinarsi. Il campo non mi sembrò così grande, eppure, pensai, attualmente ci vivono 300 persone, delle quali sei sono donne che aspettano un bambino. Quella mattina del quattro febbraio avevo deciso di andare in quel campo rom non sapendo bene in realtà a cosa sarei andata incontro…”

Questo che avete appena letto è uno stralcio tratto da una sorta di diario che ho tenuto durante la mia partecipazione ad un progetto post lauream.

Sono una giovane ostetrica laureata da poco e l’unica realtà che ho davvero vissuto è quella ospedaliera. Claudia1, mia cara amica e operatrice di un progetto sull‘educazione alla genitorialità di una cooperativa locale, mi aveva parlato di questa esperienza che stava facendo con le donne rom. In particolar modo mi aveva raccontato che all’ultimo incontro le erano state poste domande sui metodi contraccettivi e sapendo che di recente avevo seguito un corso post-laurea su sessualità e contraccezione aveva pensato potessi esserle utile, visto che le ragazze e le donne presenti avevano le idee molto confuse a riguardo.2079171028_15cc919e4e_z

Nella mia breve, ma sicuramente intensa, esperienza ospedaliera mi era capitato di avere a che fare con queste donne in più occasioni: il travaglio, i tracciati, il pronto soccorso ginecologico, il parto.

In ospedale si presentano donne rom di ogni tipo: molto giovani e spaventate alla prima esperienza, già mamme di diversi bambini, “indisciplinate”, chiuse e sulla difensiva, dolci, bisognose di attenzioni e piene di richieste. Ho assistito ad episodi in cui il medico rimproverava le donne perché facevano troppi figli, oppure in cui veniva invitata la donna a lavarsi perché altrimenti non le sarebbe stata fatta l’ecografia, ma fortunatamente ho anche avuto modo di incontrare personale aperto nei loro confronti. Ci sono state degenti che non eseguivano gli esami richiesti, che fumavano nei bagni… mi colpiva molto il fatto che queste donne venissero al pronto soccorso ginecologico per ogni minimo problema, ma che allo stesso tempo non facessero gli esami previsti dalla Regione Toscana per la gravidanza.

Questo quadro mi ha sempre lasciata da un lato perplessa e dall’altro curiosa, percepivo che tutto quello a cui avevo assistito non era altro che la punta dell’iceberg: ogni volta avevo come la sensazione che se mai fossi andata a fondo avrei trovato le risposte che cercavo, o almeno più chiarezza.

Sono stata stimolata sin da piccola ad essere sempre aperta e curiosa, ho imparato da allora a non giudicare mai una persona o una situazione se prima non l’avessi conosciuta abbastanza, a provare ad avere la forza di mettermi sempre in discussione. Ritengo, d’altro canto, che sia importante dare il giusto ascolto ai pregiudizi perché nascondono sempre qualcosa di vero, ma non sono che un aspetto, una faccia di un qualcosa più complesso. Capitatami questa occasione non ho esitato a dire sì. Avevo bisogno di capire e di avere un contatto con questa cultura così lontana, ma allo stesso tempo così vicina: i bambini delle donne rom vanno a scuola con i nostri figli, prendiamo lo stesso autobus, usufruiamo dello stesso ospedale.

Adesso, ripercorrendo il mio diario, proverò a raccontarvi e a rivivere il mio primo incontro con le donne rom di questo campo, aggiungendo qualche dato relativo alle domande più frequenti che mi sono state poste in quel caso e negli incontri successivi.

Quel quattro febbraio, dopo aver stampato una ventina di immagini di Anatomia e di metodi contraccettivi, sono partita con Claudia1 per andare per la prima volta al campo rom di Pisa in cui si teneva il progetto. Maria1, l’altra operatrice, mi ha detto che quella mattina saremmo dovute andare a svegliare le donne e motivarle. Non sarebbe stato facile portarle con noi perché era sciopero dei mezzi pubblici perciò anche i bimbi più grandi erano a casa e noi non avevamo abbastanza posti per tutti.

Arrivate al campo, nella prima abitazione, è Sceba1 ad aprirci la porta, felice si va a vestire e porta con sé i suoi due bambini: Helver1 ed Elvis1. C’è un’altra donna con lei, ma ha tutti e cinque i bambini a casa e quindi non potrà venire al progetto. Andiamo in altre case, ma non riceviamo nessuna risposta. Maria1 telefona, nessun altro sembra voler venire. Prima di uscire dal campo, proprio nell’ultima casa, una donna decide di seguirci con i suoi due figli. Si affacciano alla porta ad accoglierci almeno altri sei, sette bambini. Sunta1, la madre, ha i capelli chiari e due occhi azzurri penetranti. Il suo figlio più piccolo non ha ancora un anno e mezzo, ed ha la bronchiolite. “Il dottore del pronto soccorso mi ha dato le medicine” ci dice. Loro vanno lì per il minimo problema, non possono accedere ad un’assistenza sanitaria diversa.

Sceba1 è una donna forte, vuole fondare un’associazione culturale per donne rom e le piacerebbe lavorare per comprare dei bei regali ai suoi figli. Ha 23 anni, scura di carnagione, dei capelli neri lunghissimi e molto curati. Appena ha saputo che sono un’ostetrica le si è illuminato il viso. I suoi bimbi hanno gli occhi grandi e neri, a differenza dei due figli di Sunta1 , che sono molto chiari come la madre. Nel tragitto verso una delle sedi utilizzate dalla cooperativa mi sono seduta vicino a Helver1 ed Elvis1 entrambi di 5-6 anni circa. Abbiamo giocato pure un po’ insieme: io disegnavo gli animali e loro li coloravano. Sono molto vivaci i bambini rom, mi confermano anche Maria e Claudia, sono molto attivi, giocano spesso all’aria aperta, sono curiosissimi e amano i giochi più semplici.

2078427025_fea946561d_zMentre giocavamo ho pensato che nonostante fossero così piccoli e non avessero nessuna colpa, non avessero fatto altro che giocare nella loro vita come qualsiasi altro bambino, erano già così odiati. Hanno già il disprezzo di molte persone solo perché sono rom. Pagano già per un qualcosa che non hanno fatto. A scuola magari saranno trattati in modo diverso. Alcuni di loro, mi dice Claudia, avrebbero bisogno di occhiali e apparecchio, ma non ci sono oculisti ed odontoiatri disponibili a collaborare e le mamme non sono disposte a far vedere i figli da qualcuno se non gratuitamente.

Qualche giorno dopo, parlandone, un mio amico mi ha posto questa semplice domanda: “perché mai dovremmo dargli dei diritti se non pagano le tasse?”. Logico da una parte, è una domanda che in tanti si pongono.

Io credo che senza un’istruzione, una buona salute ed un’educazione non ci potrà mai essere un’integrazione. Fingere che non esista la popolazione romanì in tutte le sue sfaccettate etnie e differenti culture non funziona: alimenterà solo un problema più grande che si presenterà tutto insieme ed insormontabile.

In ospedale, proprio per come è strutturato l‘intervento, spesso non c’è molto tempo per parlare con i pazienti. In molte strutture il personale mostra poco rispetto per la degenza, sembra normale dare poca attenzione ad aspetti più “umani” come l’ascolto, la comprensione e il sostegno psicologico. Si fa sempre tutto di fretta.

Problematiche di questo tipo aumentano in modo esponenziale quando vi è una evidente distanza culturale e linguistica.

Pur avendo assistito al parto di qualche donna rom già prima di partecipare a quest‘iniziativa, ho cominciato a capirne di più la mentalità solo a partire da questo progetto, avendo avuto un contatto maggiore con il loro quotidiano, con le loro esperienze personali.

Mi era stato chiesto di parlare di contraccezione, ma non avrei creduto di trovarmi a dover spiegare a donne adulte cosa vuol dire avere rapporti protetti o poter decidere quando avere una gravidanza.

Mi sono trovata di fronte a donne diverse, con priorità e necessità differenti, ognuna a suo modo aveva bisogno di sapere ed era curiosa di capire qualcosa in più su di sé, sul proprio corpo e sui propri diritti. C’era la giovane madre di due figli che voleva sapere come si potesse fare contraccezione e che cosa potesse comportare farla, quella che non aveva chiaro che cosa fosse l’utero e che ruolo avesse nel parto e nella gravidanza, la donna che voleva capire che cosa fosse il ciclo mestruale… Una madre mi ha persino detto che lei si sentiva più libera delle altre riguardo al decidere quando diventare madre o no perché, se fosse rimasta incinta, suo marito le avrebbe permesso di abortire. Ho dovuto spiegarle che era possibile scegliere anche se rimanere incinta, non solo decidere cosa fare di una gravidanza. Per qualcuna l’idea di contraccezione era sin da subito inaccettabile, in quanto associata ad una sorta di rifiuto verso il bambino, e quindi verso l’idea di essere madre – il ruolo fondamentale che la donna deve assumere nella cultura rom.

Ho spiegato che a mio parere fare contraccezione significa amare di più un eventuale bambino e non disprezzarne l’idea, perché vuol dire decidere di accoglierlo nel momento migliore. La cultura e la religione musulmana della comunità rom che ho incontrato impone di non avere rapporti fino al matrimonio. Sposare l’uomo che vogliono è considerata una realtà per poche in questo gruppo, anche fra le più giovani che hanno finito da poco la scuola superiore o che addirittura la stanno ancora frequentando. Alcune di loro vorrebbero finire gli studi, ma è un rischio alto per le donne rom: potrebbero trovarsi comunque senza lavoro e in più in età troppo “matura” per un marito.

Altre mi hanno raccontato di aver fatto la cosiddetta “fuitina”, ovvero sono state “rapite” dall’uomo di cui si erano innamorate, ma che la famiglia non accettava, ed hanno avuto un rapporto sessuale. A quel punto i parenti sono stati costretti ad accettarlo per non disonorare la famiglia. La maggior parte di loro sono macedoni, venute in Italia perché promesse in sposa con un matrimonio combinato, senza sapere una parola di italiano. Già dai 16 anni iniziano ad avere figli. E’ stato come un viaggio nel tempo.

Oggi la società italiana si considera lontana dall’idea di una donna identificabile solo nel suo ruolo di madre, infatti ogni ragazza può aspirare a crescere, studiare e ambire ai lavori più prestigiosi: abbiamo capi d’industria, magistrati, deputate, senatrici, primari di ospedali pubblici ecc…donne, ma non è sempre stato così e la Storia recente ci insegna che non è certamente la minore forza fisica o l’incapacità di dedicarsi alla caccia, alla pesca o alla coltivazione ad aver tenuto la donna in posizione secondaria rispetto all’uomo.

Per millenni l’identità femminile è stata principalmente legata alla figura della donna-madre, spesso sganciata dal concetto di sessualità; pensiamo ad esempio alla religione cattolica, che venera una donna-madre-vergine.

I motivi sono da ricercare in molte variabili culturali e psicologiche, ma anche prettamente biologiche.

La prima causa biologica è sicuramente da ritrovare nella maternità stessa: in Italia fino al 1960, quando è stata diffusa la pillola anticoncezionale, e al 22 maggio del 1978, quando dopo un decennio di lotta, è stata ottenuta la depenalizzazione dell’aborto, non era possibile una scelta libera e responsabile dell’essere madre.

Il cambiamento della percezione di sé ha portato gradualmente le donne a vivere la loro sessualità in modo diverso e quindi a mettere in discussione i modelli preposti dalla società in cui vivevano. Questo però, per vari motivi, non è accaduto nella cultura rom.

Se solo provassimo ad immaginare come sarebbe essere donne, oggi, senza la possibilità di scegliere in merito a sé stesse su questi temi, ci potremmo rendere conto di quanto l’emancipazione femminile dallo stereotipo di subalternità all‘uomo sia dovuta in grandissima parte all’acquisizione dei diritti in tema di gravidanza scelta e contraccezione.

Tutto ciò potrà apparire un preambolo un po’ prolisso, ma dal mio punto di vista necessario. 2078390835_95510d224f_zE’ per me fondamentale sottolineare che individuo nel cambiamento e nella crescita della percezione di sé le basi per potersi porre in modo diverso verso i propri diritti, verso la sessualità (e quindi anche la maternità) vissuta in maniera libera, consapevole e responsabile.

Nonostante creda molto nel valore che ha avuto la nostra rivoluzione culturale, capisco che pensare ad una generica “cultura rom” in cui la donna si emancipi dalla subalternità all’uomo e si occidentalizzi è forse un’utopia e da certi punti di vista neanche giusto.

Non possiamo essere noi a cambiare le cose al posto loro, ma quello che ho capito da questi incontri è che queste donne sono tutte diverse tra loro e che vivono, quindi, in modo differente il ruolo impostogli dalla loro cultura: alcune hanno iniziato a farsi domande sul corpo, sulla possibilità di una maternità scelta e consapevole, altre vorrebbero lavorare e certe hanno deciso di finire gli studi e di essere loro a scegliere chi sposeranno.

Credo che qualcosa stia cambiando e che potrebbe essere importante creare un punto d’appoggio che fornisca le informazioni necessarie per questa crescita, sebbene essa debba partire da loro stesse.

Riterrei limitata la ricerca di un percorso che miri alla sola gestione delle gravidanze delle donne rom in ospedale, ad esempio.

Troverei piuttosto utile parlare di un progetto che aspiri alla prevenzione di gravidanze indesiderate: sarebbe più produttivo, sia per il sistema sanitario in termini di costi, sia per il benessere dei bambini, delle donne e delle famiglie.

1 I nomi in questo testo sono di fantasia, con lo scopo di garantire l’anonimato di tutti i coinvolti.

Francesca Catelli

L’articolo è ripreso dal blog CriticMente

Ph. Philippe Leroyer


Francesca Catelli

Laureata in Ostetricia all’Università di Pisa.
Ostetrica libero professionista che opera sul territorio del comune di Vicopisano e Livorno. Tirocinante post-lauream presso l’ “Ambulatorio di Riabilitazione del Pavimento Pelvico” nel reparto di Ginecologia ed Ostetricia del Santa Chiara.
Attualmente Studentessa presso la SEAO, Scuola Elementale di Arte Ostetrica di Firenze, iscritta al corso annuale “La salute pelvica perineale nei cicli femminili”