La colpa di esistere di Giulia Mazzoni

Componimento risultato primo classificato nella prima edizione

del Concorso Fuoriclasse – sezione racconti

*

E’ quasi l’ora di pranzo di un’altra giornata da schifo.

L’odore gommoso della palestra mi entra nelle narici aperte dalla corsa.

“La palla a lei non gliela passare” – dice Simona ad Eleonora senza preoccuparsi di essere sentita.

Si guardano complici e, dopo essersi scambiate un sorriso maligno, continuano a giocare a basket.

Faccio finta di nulla e corro lungo il campo, cercando di ignorare quella fitta allo stomaco ormai fin troppo familiare. Cerco di seguire le traiettorie della palla, anche se so che non la toccherò mai.

Dopo qualche minuto, la partita finalmente si interrompe.

“Dai bimbe, è suonata! Andiamo a cambiarci” dice Simona alle altre.

Seguo la scia di ragazze che va verso gli spogliatoi e, appena entrata, vedo che il mio zaino è in terra insieme alla borsa da palestra.

Eleonora dà un calcio alla mia roba per toglierla di mezzo e prendere il mio posto. Si gira e mi vede dietro di lei.

“Ops, scusa!” – e inizia a ridere, coinvolgendo anche le altre in un clima di sfottimento generale. Sempre simpatiche le mie compagne di classe.

Lascio perdere e mi avvio verso i bagni: mi cambierò quando se ne saranno andate via tutte.

Entro nella stanzina maleodorante del wc e appoggio la testa contro la parete.

Perché non riesco mai a reagire? Perché trattano così solo me? Cos’ho di sbagliato?

Le lacrime mi sgorgano dagli occhi prima che riesca ad impedirglielo. Cerco di soffocare i singhiozzi, stando attenta a non farmi sentire. Conoscendole, si divertirebbero anche a vedermi soffrire.

*

Quando arrivo in sala mensa, il solito odore di cibo preconfezionato mi stordisce. Sento gli occhi ancora un po’ gonfi dal pianto di poco fa, ma spero che nessuno ci faccia caso.

La mia classe ha già preso posto in uno dei grandi tavoli rettangolari.

L’unica sedia libera è quella accanto a Francesca, l’altra sfigata della classe.

Almeno lei non mi farà domande.

Prendo il mio vassoio blu pieno di cose che non mi vanno e mi metto a sedere.

“Dov’eri finita?” – mi chiede Francesca.

“No, niente… sono solo andata in bagno” – rispondo vaga.

“Che c’avevi la diarrea?” – urla Stefano facendo ridere tutta la classe.

Sento il viso diventare bordeaux. Per l’ennesima volta la mia lingua non riesce a muoversi.

Francesca si gira verso di me:

“Non farci caso, è solo un’idiota”

Annuisco rivolgendole un sorriso forzato e inizio a mangiare con la testa china sul vassoio.

Mentalmente, non chiedo altro che di sparire e non tornare mai più.

*

Finisco a malapena la pasta al pomodoro e lascio tutto il resto nel piatto.

Quando a scuola ci sono giornate come questa mi passa sempre la fame. Lo stomaco si contrae e mi assale un vago senso di nausea. Non so perché, ma è così. La mamma mi brontolerebbe se lo sapesse: dice sempre che devo mangiare per irrobustirmi, per diventare più forte. In realtà io sono sempre stata magrissima di costituzione e, allo stesso tempo, troppo alta per la mia età.

5880890448_094c1f4a81_zHo undici anni e frequento la seconda media in una scuola statale di Prato. Sono un anno avanti a causa di quella geniale invenzione chiamata “primina” che i miei hanno deciso di impormi e, di conseguenza, sono sempre stata la più piccola della classe. Alle elementari questo non era un problema: quando hai sette anni mentre gli altri ne hanno otto, le differenze di crescita sono minime. Ho avuto un’infanzia felice, tutto sommato. Di amici ne avevo abbastanza e venivano spesso a casa mia a giocare. Il problema è arrivato più tardi.

Dopo la quinta elementare, i miei genitori hanno deciso di traslocare dall’altra parte della città: avrei fatto le medie in una scuola diversa da quella dei miei vecchi amici; avrei avuto insegnanti nuove e nuovi compagni di classe. Avrei scoperto il vero significato della parola “incubo”.

*

Svuoto il vassoio e lo metto al suo posto assieme agli altri.

Anche oggi dovrò trovare un modo per trascorrere l’ora di ricreazione post-pranzo senza dare troppo nell’occhio.

Esco fuori, nel giardino della scuola, e mi vado a sedere dietro ad uno degli alberi più grossi. Ho con me il mio mp3: la musica è da sempre l’unica amica su cui possa contare.

Premo play e mi guardo intorno annoiata. Davanti a me, sopra un lampione, un volantino scosso dal vento parla di un laboratorio di scrittura che partirà il mese prossimo. Quanto mi piacerebbe saper scrivere bene come mia madre. Redattrice in un quotidiano di Firenze ormai da quindici anni e scrittrice per passione. Una donna realizzata, anche se nessun editore ha ancora pubblicato i suoi romanzi. Mi basterebbe avere un briciolo delle sue competenze per evitare i brutti voti a scuola.

Sposto lo sguardo da quel sogno irrealizzabile e vedo la professoressa di italiano fumare in piedi di fronte alla porta d’ingresso. Sta chiacchierando col professore di storia. Entrambi indossano vestiti vecchi e trasandati: quel tipo di indumenti che si trova ai mercatini dell’usato. Sembrano abbastanza felici, nonostante la loro sciattezza. Non sono alla moda ma nessuno glielo fa pesare: il bello di essere adulti.

Chissà di cosa staranno parlando. Forse del loro bellissimo lavoro: cercare di infilare qualcosa nelle zucche di ragazzini già in preda agli ormoni. Perché, sembrerà strano, ma in classe mia da quest’anno non si parla che di sesso. Simona ed Eleonora hanno fatto una lista dei ragazzi più belli della scuola. Dicono che vorrebbero portarseli a letto, ma secondo me non sanno neanche come si fa. Stefano, il più figo della classe, ha già la fidanzata. Si chiama Marina, è di un’altra sezione ed è la ragazza più alla moda della scuola. Ha sempre i jeans giusti, le t-shirt più costose, le scarpe griffate. Tutti sanno che l’hanno già fatto. Le voci dicono che la prima volta è stata a casa di lei mentre i genitori non c’erano. Pare che alla fine si siano pure fumati una sigaretta.

A me, invece, i discorsi sul sesso non interessano. Fino all’anno scorso giocavo ancora con le Barbie e, anche se non lo dico a nessuno, non ho mai smesso di guardare i cartoni animati. Come dicevo, l’essere un anno avanti alle medie fa la sua differenza. Non è più come da bambini.

Ogni giorno sono costretta a coesistere con una classe che non mi accetta. Perché sono piccola, perché sono alta, perché voglio ancora essere bambina mentre loro vogliono essere grandi.

Guardo lontano: i miei compagni stanno giocando a pallone, mentre le ragazze spettegolano sedute sull’erba. Chiudo gli occhi cullandomi nella voce di Dolores dei Cranberries e, in pochi attimi, cado nel sonno.

*

Una mano mi afferra il braccio scuotendolo. Apro gli occhi impaurita e tolgo subito dalle orecchie gli auricolari con il volume ancora alto.

Davanti a me vedo Simona che mi guarda con un sorriso. Stavolta però non sembra maligno.

“Ma che ci fai qui? Ti abbiamo cercata dappertutto!”

“Io… ehm… ascoltavo la musica…” – la lingua mi si impalla come sempre mentre ancora incredula fisso la fighetta davanti a me.

Da quando in qua Simona mi rivolge la parola? E perché mai mi stava cercando?

“Sai, vorremmo fare un gioco tutti insieme e vorremmo che partecipassi anche tu” – dice lei.

“Io?”

“Sì, tu. Se poi non vuoi venire dimmelo, mica ti obbligo…” – mi dice con aria di sfida.

“No, no, va bene… vengo”

Non so se essere più stordita dalla sorpresa o lusingata per l’invito.

Mi alzo in piedi e per un attimo mi sorreggo al tronco dell’albero: la testa mi gira e penso che forse farei meglio a prendere quelle vitamine che mi propina sempre la mamma.

“Che c’è, stai per svenire?” – mi chiede Simona con tono ironico.

“No, no, sto bene”

Ci avviamo verso il gruppo, lei davanti ed io dietro: un padrone col suo cagnolino. Vedo che, in lontananza, gli altri ci stanno fissando.

Cerco di sistemare con le mani i capelli scompigliati dal sonno, anche se so che non posso fare niente per non sembrare un completo disastro.

Dopo una breve camminata arriviamo dai nostri compagni di classe.

“Ecco, finalmente ci siamo tutti” – dice Stefano.

Mi guardo intorno.

“Veramente manca Francesca” – dico, stupendomi di essere riuscita a parlare.

Stefano sghignazza: “No, Francesca non importa che venga, ci basti tu” – dice guardando Emanuela, una delle peggiori arpie di tutta la classe nonché grande amica di Simona ed Eleonora.

Mentre cerco di capire il significato di quelle parole, Eleonora dice ad alta voce:
“Ora giochiamo tutti al gioco della bottiglia! Mettiamoci in cerchio!”

Stranissimo – penso – nessuno mi ha mai voluto far partecipare a questo giocoIl rischio di baciare una nullità è sempre stato troppo ripugnante per chiunque.

“Giulia, tu mettiti lì” – dice Simona disponendo le persone ai loro posti.

Mi trovo in mezzo a Michele, uno dei migliori amici di Stefano, e Claudia, una ragazza non troppo quotata ma comunque accettata dal gruppo.

L’unica pecora nera qui sono io.

“Michele, inizia tu!” – dice Stefano mentre con un braccio cinge la spalla di Marina.

Michele prende la bottiglia e dice “Bacio!”

Appoggia la bottiglia di plastica sul tombino che sta in terra e la fa roteare.

La punta della bottiglia si ferma davanti ad Emanuela.

Michele, visibilmente divertito, va verso di lei e, scherzosamente, le fa fare un casqué dandole un leggero bacio sulle labbra.

Entrambi scoppiano a ridere, seguiti da tutti gli altri.

Io resto immobile, come una pecora in mezzo ai lupi, ancora incredula di trovarmi dove sono. Quanto sarebbe bello poter essere loro amica.

“Vai Emanuela, ora tocca a te! Bacio o schiaffo?” – chiede Simona con un sorrisetto odioso.

Emanuela alza gli occhi su di me e un brivido mi corre dietro la schiena. Per la prima volta nella vita i nostri sguardi si incrociano in una sfida silenziosa e feroce. Nei suoi occhi l’odio è palpabile ed evidente e dentro di me sento crescere un grande senso di colpa: quello di esistere.

Emanuela fa un passo in avanti, con aria ironica si fa il segno della croce, mette le mani giunte e con uno sguardo speranzoso dice al cielo “Ti prego!”.

Poi appoggia la bottiglia sul tombino, mi rivolge un altro sguardo e dice: “Schiaffo”.

La bottiglia esegue un numero immenso di giri, o almeno così sembra a me. Mi sento come in un limbo crudele, in un vortice spietato in cui non posso che continuare a sprofondare.

Nel mio stato vegetativo sento le ragazze esultare.

Come un’ameba abbasso gli occhi sulla bottiglia e la vedo ferma nella mia direzione.

Emanuela mi guarda e si incammina verso di me, come un leone verso la sua preda.

Quando mi si ferma di fronte, sento le gambe tremare.

Potrei svenire, oppure essere inghiottita dal suolo e sparire per sempre. E’ il mio unico desiderio e spero che qualcuno lo esaudisca. Adesso.

Sfoderando il suo sorriso più malvagio, Emanuela mi rivolge le sue ultime parole prima dell’esecuzione:

“E abbassati un po’ che sei troppo alta!” – dice, mentre tutti ridono.

Nell’ennesimo impeto di tacita obbedienza verso chi è più stronzo di me, le mie ginocchia si piegano.

Il manrovescio che mi arriva sulla guancia destra fa più male dentro che fuori.

Mentre la mia carnefice torna esultando al suo posto accompagnata dalle risate di tutti, sento la campanella suonare.

Gli altri si incamminano verso l’ingresso della scuola. Vorrei farlo anch’io, ma le mie gambe non funzionano: sono impietrite dall’umiliazione.

Guardo verso il terreno che è ancora intatto.

Ancora una volta nessuno ha ascoltato le mie preghiere.

*

Rientro in classe con qualche minuto di ritardo. Ci è voluto un po’ per convincere le mie gambe a muoversi di nuovo. Mentre cammino verso il mio banco sento la professoressa che mi rimprovera.

“Biagini, non si rientra in ritardo dopo un’ora di ricreazione!”

Stefano prontamente risponde “Prof la scusi, è che oggi la Biagini c’ha la diarrea!”

Nel punto più basso della mia esistenza, mi siedo in silenzio tra le risate generali.

Trascorro le ore pomeridiane di lezione in uno stato di trance e faccio finta di seguire le spiegazioni della professoressa, anche se alle mie orecchie non arriva una sola parola.

Per tutto il pomeriggio cerco di apparire indifferente a quello che è successo poche ore prima, ma dentro di me qualcosa continua a sgretolarsi inesorabilmente.

Alle 16.30 la campanella segna la fine della giornata scolastica.

Fiumi di ragazzi corrono fuori da quella scatola dell’obbligo. A rilento, metto le mie cose in cartella e la chiudo e, pensando di essere rimasta da sola, bisbiglio un “vaffanculo a tutti”.

“Giulia, vuoi dirmi cos’è successo?”

La voce della professoressa di italiano mi riporta alla realtà.

Mi volto di scatto verso di lei e metto la cartella sulle spalle.

Ci mancava anche questa!

“No Prof, non è successo niente”

“Pensi di liquidarmi così? Ho visto la tua aria assente durante le mie lezioni. I tuoi voti quest’anno non vanno bene e l’anno prossimo c’è l’esame. Bisogna che tu ti metta sotto a studiare”

Vorrei dirle che in questo momento al massimo potrei mettermi sotto ad un treno, ma la assecondo.

“Sì Prof, ha ragione, studierò. Ora vado che mia madre mi aspetta”

“Va bene. Però pensa a quello che ti ho detto”

“Sì, sì. Arrivederci”

Corro nel corridoio e scendo velocemente le scale.

Anche per oggi l’agonia è finita.

*

Apro lo sportello della Punto grigia di mia madre. Mi accomodo sul sedile un attimo prima di notare la sua aria scocciata.

“Ma quanto ci hai messo? Sono usciti tutti prima di te! Possibile che sei sempre così lenta?”

“No scusa mamma, è che mi ha fermato a parlare la Prof di italiano”

“Perché? Ci sono problemi?”

Accidenti a me e a quando parlo senza riflettere.

“No, no, è che… voleva parlarmi di un laboratorio di scrittura che faranno a scuola”

“Laboratorio di scrittura? A te?”

“Sì…”

“Stavolta la cavolata potevi inventartela meno grossa. E perché mai ti avrebbe dato un’insufficienza nell’ultimo compito se sei in grado di partecipare ad un laboratorio di scrittura?”

“Ma che ne so mamma… me l’ha detto così” – sbuffo. Non sopporto più neanche lei. Lei non sa come mi sento.

“La verità è che sei sempre la più lenta. Bisogna che ti svegli bambina, sennò la gente ti mangia la pappa in capo!”

Guardo fuori dal finestrino. Non vedo l’ora di essere in camera mia, lontano da tutto e da tutti.

*

Entro nella mia stanza e chiudo la porta dietro di me. Accendo lo stereo e faccio partire l’ultimo pezzo degli Aerosmith. Mi butto sul letto e mi immergo nella mia attività preferita: fantasticare.

Sogno di essere la più bella della scuola, adorata dai ragazzi più fighi, di essere imitata dalle amiche e di andare bene a scuola.

“Bella e intelligente” – potrebbero dire i miei genitori a tutti i loro conoscenti – “abbiamo proprio avuto fortuna”.

Immagino di indossare le magliette più alla moda, di avere il trucco giusto, di parlare di ragazzi con le altre che mi chiedono consigli sulle questioni amorose. Sogno di essere chi non sarò mai.

All’improvviso mia madre apre la porta di camera mia.

Che cavolo vuole ora?

“Giulia, c’è una tua amica al telefono”

Amica? Io non ho amiche!

“Ma chi è?” – chiedo stralunata.

“Che ne so, vuole te. Dai, prendi il telefono che devo andare a girare il minestrone”

Con timore prendo il cordless e chiudo la porta di camera.

Faccio un sospiro profondo e attacco la cornetta all’orecchio.

“Pronto?”

“Giulia ciao, sono Francesca.”

Francesca? Non mi ha mai chiamata a casa.

“Ciao… dimmi” – la incalzo curiosa.

“Scusa se ti disturbo ma volevo chiederti se mi davi i compiti di storia che hanno dato stamattina”

Ecco. Mi sembrava strano.

“Aspetta, prendo il diario”

Apro la cartella e tiro fuori la Smemoranda fucsia.

“Allora, vediamo… c’è da studiare pagina 8 e 9 e da fare la scheda a pagina 12.”

“Ok, segnato. Grazie mille.”

“Figurati… allora ciao…”

“Giulia, aspetta un attimo” – dice tutto d’un fiato, quasi mangiandosi le parole.

“Dimmi” – rispondo ancora più stupita.

“No è che volevo dirti… cioè sai… quello che è successo oggi… insomma, io ho visto tutto”

Chiudo gli occhi e sento scorrere i brividi sulla guancia che ha ricevuto lo schiaffo. Poi sento di nuovo la voce di Francesca:

“Ero seduta non troppo lontano da voi e ho visto prima Stefano ed Emanuela confabulare qualcosa tra loro, poi Simona che ti è venuta a chiamare ed infine lo schiaffo. Credo che stavolta abbiano veramente esagerato. Ti ho vista rimanere lì da sola e non ho avuto il coraggio di venirti a parlare. In fondo non ci siamo mai parlate veramente. Ma volevo dirti che se hai bisogno di qualcuno con cui sfogarti, io ci sono. E, anche se con me non sono mai stati così stronzi, penso di sapere come ti senti. Insomma, se ti va potremmo studiare insieme qualche volta, che dici?”

Apro gli occhi e abbasso per un attimo il cordless sul mio petto. Una nuova, sconosciuta sensazione di calore si allarga nella mia pancia, mentre un sorriso mi dipinge le guance di rosa.

Forse è vero che quando si tocca il fondo non può che esserci una risalita.

Rimetto il telefono all’orecchio e inizio a parlare.

licenzacc-3Da oggi anch’io ho un’amica.

ph: Mikhail Dorokhov e Sophia Louise (copertina